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Da Verona a Trieste in sella con Giulia (2)

Giovedì: Badoere – Oderzo. Passando per la Casa delle Fate

La ciclabile dell’ex ferrovia Treviso-Ostiglia diventa sterrata, passando in provincia di Treviso. Attraversiamo il parco del Sile, facendo qualche deviazione nella zona umida di risorgiva. Qui incontriamo un bosco ipnotico: i tronchi degli alberi sembrano l’opera di un soffiatore di vetro e l’aria, imbevuta d’acqua e di luce in proporzioni speciali, restituisce colori di acquerello, di paesaggio in bottiglia.

Questa è terra di paludi e mulini. Ci concediamo qualche altra deviazione, più o meno volontaria (ogni stradina che si allontana da quella principale disegna un lombrico sulla traccia gps: quanti, a fine viaggio!) alla ricerca di qualche mulino visitabile, ma dobbiamo accontentarci di vederne uno da fuori. Una coppia di cicogne ha costruito il nido su un traliccio: dai rametti spuntano i becchi dei cicognini.

Poco prima di entrare in città, ci fermiamo a gonfiare le gomme in un’area attrezzata per la manutenzione delle biciclette, idea che si rivelerà pessima da lì a poche ore: gomma a terra per la terza volta per Fede! Questo ci insegna (che poi lo sapevamo, ma non ci abbiamo pensato) che mai bisogna gonfiare una gomma rattoppata il giorno prima.

Treviso ci accoglie sotto i suoi portici, mentre piove. Legate le bici dietro Piazza dei Signori, giriamo a piedi in questa città deliziosa, dai confini ondeggianti. Tutto si riflette, tremola, scorre e suona di casa come un acquaio, di stoviglia.

Pranziamo a tramezzini, una vera specialità da queste parti. Mi ripropongo di provare a farli una volta tornati, magari anche le sfogliatine, mi dico, che qui sono grandi come tegole. Per essere ben sicuri di poter replicare la ricetta, siamo costretti a svariate degustazioni… Passiamo accanto a una chiesetta che sembra sorgere su un’isola in mezzo a uno stagno lussureggiante, regno di germani reali e folaghe.

Oltrepassato il sacrario militare di Fagarè della Battaglia, ci prepariamo a percorrere il ponte sul Piave.
Vicino a Ponte di Piave c’è la “casetta rosa” di Goffredo Parise, la “Casa delle Fate”, come la chiama lui stesso in uno dei suoi racconti. L’ultima piena l’ha quasi sommersa, ma le notizie che trovo non chiariscono se sia attualmente visitabile oppure no. Poiché ci costa una piccola deviazione, decidiamo di provare.
Goffredo Parise fu subito affascinato da questa casa e sembra che abbia detto a un amico che l’avrebbe acquistata immediatamente, se il prezzo fosse stato modesto. La comprò in effetti per una somma ragionevole nel 1970 e ci abitò fino al 1982, riuscendo nel frattempo a perdere la testa per una donna e a scrivere uno dei suoi capolavori, “I sillabari”.
Troviamo il cancello di ingresso grazie alle indicazioni di una signora molto anziana, con gli occhi chiari, incontrata in mezzo a una grande aia poco distante.
“La casa dello scrittore?” Parla di lui come se abitasse ancora lì. “Dovete tornare indietro e prendere una piccola via sterrata sulla sinistra”. Sorride e fa ciao con la mano. Non mi stupirei se ci affidasse i suoi saluti.
Così, nel tempo che occorre per trovare la strada, immagino una sera di pioggia di quaranta, cinquanta anni fa. Parise bussa alla porta dei suoi vicini per invitarsi a cena, cosa che sembra fosse per lui un’abitudine. Gli capita di essere di pessimo umore, a volte, o al contrario un piacevolissimo conversatore: nessuno può saperlo in anticipo, nemmeno lui. Quella sera che la pioggia gli bagna le spalle e i piedi (anche la terra spaccata dell’argine se la beve), che il cielo precipita a pezzi nel Piave (è tanto vicino che crede di sentirne il rumore), quella sera è così fradicia d’acqua che quasi gli viene da ridere. Bussa alla porta della casa vicina, quella con l’aia davanti che pare una piazza. Gli apre una donna di una trentina d’anni, con gli occhi chiari. Due bambini corrono alla porta per vedere chi è. Impareranno a chiamarlo “lo scrittore”, perché quello fa: scrive. A volte si regge la faccia con la mano, come se potesse cadergli sul tavolo da un momento all’altro, così i bambini riconoscono in lui la noia e sanno di potersi fidare. A volte gli dicono di fermarsi ancora un po’, solo cinque minuti, che vuol dire facciamo durare questo tempo per sempre. Quelli sono i momenti in cui più somiglia a loro, e loro a lui.

Quando si è fatto tardi davvero, la donna con gli occhi chiari gli sorride, fa ciao con la mano e chiude la porta lasciando fuori l’aia, la notte e lo scrittore.

Mi sembra di stare nella pancia del fiume ad abitare qui, diceva Parise.
Porta e finestre sono chiuse, perciò giriamo in punta di piedi nel giardino.
L’atmosfera è densa di pioggia appesa. La terra è piena di solchi, a completo capriccio del fiume.
Una gabbia bianca, agganciata a un ramo, delimita inutilmente una porzione d’aria. Facile credere alle fate, in queste terre di confine tra elementi, in questi luoghi sempre sul punto di finire sommersi.
Arriviamo a Oderzo, dove abbiamo stabilito di fermarci a dormire dopo la tappa di oggi.
Questa sera abbiamo a disposizione fornelli e pentole, perciò cuciniamo e apparecchiamo di fuori, su un tavolino vista vigneti. Il cielo diventa scuro e ci prepara uno spettacolo pirotecnico di fulmini.

Venerdì: Oderzo-Pordenone con bucato steso al sole

Quando i panni stesi la sera prima non asciugano nella notte, l’unica soluzione è stendere sulla bicicletta, in modo che ci pensi il vento. Dalla piazza principale di Oderzo, assicurato il bucato alle borse con le mollette, seguiamo il fiume Monticano. La tappa di oggi sarà abbastanza breve, poco più di una cinquantina di chilometri, ma ci riserverà panorami vari e percorsi dal fondo ora asfaltato, ora sterrato.

Le viti sono sempre protagoniste dal bordo strada fino all’orizzonte, disponendo foglie e grappoli al sole secondo la traiettoria antica della crescita: dal basso verso l’alto. Questo è il motivo per cui le linee verticali ci trasmettono vitalità e senso di dinamismo, mentre al contrario quelle orizzontali ci parlano di quiete e stabilità.

Un ponticello ci porta da un argine all’altro, mentre sotto di noi la corrente pettina lunghe alghe verdi, come capelli di strega. Forse per effetto della visita di ieri alla Casa delle Fate, forse perché vedo creature delle fiabe ovunque, immagino senza difficoltà il volto e il corpo verdastro della creatura fluente a cui devono appartenere. Spirito delle acque, dai denti aguzzi come pietre spaccate, abita il limo del fondo, senza divertimento né noia.

Si diceva, il bucato: sembra che l’etimo del termine sia da mettere in relazione a una parola francese, perciò niente a che vedere con i buchi e gli strappi. Ecco, tuttavia, se stendete in bicicletta e non calcolate bene la lunghezza della corda da stendere, per così dire, è facile che il bucato si buchi, rimanendo impigliato nel cambio. Per fortuna ce la caviamo soltanto con un fondello da buttare!

Caprette socievoli ci fermano per qualche pettegolezzo da argine, poi proseguiamo nell’area golenale del fiume Livenza, su piacevole sterrato, fino a raggiungere il bel borgo di Portobuffolè, contornato da un fossato senza coccodrilli.

Oltrepassata Sacile, ci lasciamo alle spalle anche il Livenza e proseguiamo quasi in linea retta verso Pordenone.

Lungo la strada compare a un tratto Villa Correr Dolfin, costruita alla fine del ‘600 per i Correr, una delle famiglie patrizie veneziane tra le più antiche. Non è visitabile, ma il cancello aperto invita ad avvicinarsi. Pedalo, disegnando con le ruote un cerchio ampio attorno alle sue pareti rovinate dal sole di tutti questi anni. È un cubo chiuso. Ogni volta che mi capita di imbattermi in un edificio come questo, che sia una chiesa o una casa, mi sembra di provare un piccolissimo assaggio di quella che deve essere la meraviglia dello scopritore. Il primo archeologo, storico dell’arte, storico che-

Meglio ancora: il primo uomo comune che trovò il coccio, che disseppellì la statua nel suo orto; il bambino che recuperò il pallone nell’antico giardino di-

Per quel poco che ho potuto sperimentare di archeologia, moltissimi anni fa, mi è rimasto intatto quel gusto speciale del contatto con il tempo passato. Non ha eguali, è come un gusto mai sentito prima sulla lingua. Non è fatto di persone, ma qualche volta è fatto di ossa, e di sassi, e di soglie che se ne stanno in letargo, sottoterra, per secoli.

Il Parco dei Laghetti di Rorai offre una palette di verdi diversi, più e meno diluiti dall’acqua vicino alle rive.

Cerchiamo l’accesso al Lago della Burida, perdendoci in mezzo ai campi assolati, e quando finalmente lo troviamo, una poco amichevole signora di qualche società sportiva ci allontana da quello che evidentemente è territorio riservato ai canoisti. Pazienza. Pordenone ci consola subito con la sua accoglienza all’ora dell’aperitivo. Ci sediamo anche noi, in un bar vicino al bel palazzo del Municipio. I calici di Spritz illuminano di arancione i tavolini come tante piccole lanterne. Qualche sorso e, complice la stanchezza, ho già il sorriso ebete e i pensieri di gomma.

Sabato: Pordenone – Udine. Oltrepassando il Tagliamento

Tra le gioie che riserva un viaggio in bici, tante hanno a che fare con il ristoro del corpo, con il piacere fisico del riposo che segue la fatica o del cibo caldo quando si pedala al freddo. E dell’acqua fresca degli irrigatori in estate, naturalmente.

Nella tappa di oggi, che attraversa un territorio assolato fatto di molti campi e poche case, gli irrigatori sono quasi l’unica cosa che si muove.

La ciclabile che da Pordenone arriva fino a Corva è piacevole e scorre veloce sotto le ruote. Si prosegue poi sulla strada fino a Fiume Veneto, Pescincanna e Orcenico. Con Casarsa della Delizia entriamo ufficialmente nei luoghi di Pier Paolo Pasolini.

Io Pasolini lo conosco meno di quel che vorrei e me ne dispiaccio. Casarsa, dove transitiamo adesso con le nostre ruote, era il paese natale di sua madre e il luogo in cui lui stesso abitò negli anni ’40, prima di trasferirsi a Roma. “La meglio gioventù” comprende una sezione che si intitola “Poesie a Casarsa”: sono in friulano, a dimostrazione del suo interesse nei confronti della lenga furlana.

Qualche piacevole tratto di sterrato si alterna alla strada asfaltata, fino a condurci al Tagliamento, noto come il Re dei fiumi alpini, con la caratteristica morfologia a canali intrecciati. Attraversare il ponte richiede una certa attenzione, perciò concediamo all’alveo poche, rapide occhiate: è quasi asciutto, per molta parte inciso soltanto dal ricordo dell’acqua. Oltrepassato Codroipo, dietro una curva – con la meraviglia che solo i panorami improvvisi e inaspettati riservano – si spalancano le esedre di Villa Manin. Creatura settecentesca, ci abbaglia riflettendo il sole che picchia potente sul colonnato e sulla facciata, sfuggendo a ogni nostro tentativo di fotografarla per intero.

Ancora vie sterrate e ciclabili deserte. Sul ciglio sinistro di una strada rurale, in una pozza d’ombra, ci spia la statua enigmatica di un viandante in riposo. Sulla spalla tiene un utensile che non riesco a identificare e con la mano destra, l’unica che ha, porta alla bocca un bicchiere o forse uno strumento a fiato che non conosco.

Che cosa faccia lì, in mezzo al nulla, non è dato sapere. Esercita su di me la strana attrazione del reperto, o dello gnomo che si fa di sale se viene scoperto. Non posso giurare che si sia alzato da lì, una volta che ho ripreso la bici, ma sono quasi certa che il suo unico occhio buono abbia avuto un guizzo alla mia ripartenza.

Ancora campi di pannocchie e punti di fuga fatti di tre parti di terra e una di cielo. Arriviamo a Udine con gli occhi ubriachi del giallo dei girasoli.

Più ancora della bella piazza Libertà, più ancora delle logge e della torre dell’orologio, siamo vinti dal fascino semplice dell’oblò di una lavatrice: domani indosseremo abiti puliti e profumati! A proposito delle piccole gioie del viaggiare.

Domenica: Udine – Sales, passando per doppia discesa

Salutiamo Udine freschi di bucato – lunga vita alle lavanderie a gettoni! – e pedaliamo per i primi chilometri su strada promiscua, poi su ciclabile sterrata e asfaltata, lasciando dietro di noi una scia floreale.

Oltrepassato Buttrio, Cormons ci accoglie con gli striscioni del Giro d’Italia femminile.

È una piacevolissima sorpresa, che accogliamo cercando un posto all’ombra per aspettare il passaggio delle cicliste, mentre sgranocchiamo il nostro pranzo. Arrivano le prime atlete, seguite poi dalle altre, radunate in piccoli, velocissimi gruppi. Ricordano uno stormo, ma è una solidarietà illusoria, suggerita da una vicinanza che è solo contiguità di spazio: qui ognuna vola per sé. Gli occhi di chi guarda registrano un guizzo delle labbra, un muscolo che si tende, un paio di trecce bionde, colori che trascorrono a giostra, rapidissimi, attorno a quella che prima era una rotatoria tranquilla, quasi assopita sotto il sole del mezzogiorno.

Cormons festeggia il loro passaggio con i palloncini e le bancarelle di maglie rosa, cappellini e braccialetti. Non possiamo fare a meno di acquistare due magliette, con le quali domani concluderemo il nostro “Giro”.

Quando si pedala vicino alla meta, viene da accelerare. Potremmo in effetti percorrere tutta la distanza che ci resta nell’arco di questa giornata, per raggiungere Trieste in serata. Ma la  tappa di oggi, poco meno che un’ottantina di chilometri, sarà un avvicinamento. Decidiamo (come di consueto nel primo pomeriggio, per poter prenotare) che dormiremo a Sales, una piccolissima località sulle colline.

Intanto oltrepassiamo l’Isonzo, altro fiume storico lungo questo percorso, utilizzando la corsia ciclopedonale a lato del grande ponte di ferro.

Lungo la strada, compare l’impressionante Sacrario militare di Redipuglia, che contiene le salme di decine e decine di migliaia di caduti della prima guerra, molti dei quali senza nome. È un’enorme scalinata bianca, che termina all’orizzonte con tre croci.

La città portuale di Monfalcone, insolitamente burbera e per nulla accogliente, ci spinge a ripartire presto alla volta del nostro agriturismo sulle colline.

Sales si trova in provincia di Trieste, ma sembra che tutti parlino già sloveno non appena ci allontaniamo dalla costa. Però qui i confini bisogna trattarli con grande attenzione, sono le persone a chiederlo. È quello che accade quando le linee sulla carta vengono tracciate, cancellate, tracciate di nuovo e i territori – cioè gli uomini e le donne che li abitano – smembrati e ricomposti, strappati e ricuciti.

La strada per Sales si rivela più complicata del previsto, battuta da un sole cocente e quanto mai incerta (le rare persone che incontriamo sembrano non capire dove siamo diretti e c’è chi persino mostra di non aver mai sentito il nome di quella località). Eppure siamo abbastanza vicini. Commettiamo l’errore di mescolare le scarne informazioni raccolte dagli abitanti con le indicazioni di Google maps, il quale invece mostra la consueta sicurezza, questa volta davvero a sproposito. Ci troviamo a spingere la bicicletta per chilometri lungo uno sterrato ripidissimo, abbagliati dal sole e già con qualche miraggio da fame che si fa sentire. Riguadagniamo la strada carrabile, arrampicata in mezzo ai campi, ogni tanto incrociando lo sguardo di qualche raro abitante che ci scruta come fa chi non è avvezzo a vedere anima viva.

Dopo molto vagare, arriviamo finalmente a destinazione.

L’agriturismo è meraviglioso, ma questa sera la cucina è chiusa e non ci sono locali nelle vicinanze. Dopo un primo momento di sconforto, ci soccorrono l’accoglienza del gestore e l’amichevole benevolenza, favorita dal vino, di uno sconosciuto dall’animo gentile, che è lì per festeggiare un importante anniversario di matrimonio. La festa è quasi finita – le acconciature sfatte e le bottiglie vuote – ma il nostro sposo insiste per offrirci due bicchieri di vino. Brindiamo alla salute degli sposi, che ci regalano anche un piccolo bouquet di fiori!

Raccolte nuove forze, raggiungiamo un’osmiza, tipica osteria dell’altopiano del Carso, a qualche chilometro di distanza, dove mangiamo e beviamo benissimo.

La strada è quasi tutta in discesa all’andata, perciò più tardi ci aspetterà salita. Al ritorno invece, senza alcuna logica, le ruote procedono prima in piano, poi in dolce discesa nel cono bianco delle nostre luci. La campagna è immersa nel silenzio, il cielo è pieno di stelle e noi torniamo a casa, senza fatica e senza spiegarci come.

Lunedì: Duino e Trieste. La gioia è nell’andare

Chissà perché quando arriviamo a destinazione siamo felici a metà.

Non può essere soltanto questione di gioia dell’andare (che è quella a far bello il viaggio, si sa); neppure la piccola delusione che può riservare una meta tanto attesa (qui i panorami reggono il sogno) e nemmeno l’inevitabile sovrapporsi del punto di arrivo con la fine del viaggio, con tutte le sue implicazioni simboliche.

È proprio un’altra faccenda ancora, io credo, semplice e concreta come un prodotto soggetto a calo di peso naturale – per dire – e al tempo stesso ineffabile, sfuggente come i ricordi, che ridefiniamo a nostro piacere, ma senza saperlo.

Così Trieste mi accoglie diversa da come mi aspettavo.

E a ben vedere le stesse parole che usiamo – attesa per aspettativa, previsione per speranza – sono sinonimi imperfetti.

Comunque, prima di Trieste viene Duino: mare lucente e rocce a strapiombo.

Scendiamo da Sales a Sistiana con l’abbrivio della discesa e leghiamo le bici all’imbocco del Sentiero Rilke per proseguire a piedi.

La passeggiata si snoda sulla sommità delle falesie, regalando magnifici scorci sul golfo di Trieste e sulla costa slovena; dalle terrazze lungo il percorso si aprono panorami azzurri sterminati e vertiginosi scivoli di roccia che lo sguardo segue a picco verso il basso, verticali.

Quando Rilke scrive i primi due componimenti delle Elegie Duinesi si trova proprio qui, ospite presso il Castello di Duino, che vediamo arroccato sulle falesie poco lontano.

Il Sentiero conduce al Castello, ancora proprietà di quei Principi von Thurn und Taxis che ospitarono Rilke, ma aperto al pubblico. Ci riempiamo gli occhi di bellezza: ninfee, giardini curatissimi, il forte-piano su cui suonò Liszt, la scala ellittica progettata da Palladio, uova Fabergé e altri oggetti preziosi e insoliti… Le finestre e i balconi affacciano sui giardini circostanti e sul mare, così lo sguardo si muove senza posa dentro e fuori.

Dopo pranzo ripercorriamo a piedi il Sentiero Rilke e ritorniamo alle bici. Per raggiungere il Castello di Miramare c’è soltanto una possibilità, la SR14, panoramicissima ma funestata da un traffico esuberante.

Visitiamo i bei giardini che digradano verso il mare, poi ci dirigiamo finalmente a Trieste, alla sua piazza Unità d’Italia, gigantesca e bianchissima, tanto da farsi riconoscere anche da lontano.

Trieste ha un ago magnetico, proprio come una bussola.

Non ho alcuna prova a conforto di questa convinzione, ma anche stavolta le ruote della bicicletta si sono dirette verso il Molo Audace senza esitare e senza chiedermi il permesso. E anche oggi che siamo in due a condividere l’emozione di questa meta, non riesco a sfuggire all’attrazione che dopo qualche giro per la città mi riporta al Molo, come a riprendere fiato.
Le linee di forza – mi pare di vederle – se la ridono delle vie ortogonali attorno al Canal Grande, della città romana, della città austro-ungarica, delle geometrie urbane, degli incroci cittadini… Attraversano il Molo e tendono l’ago della bussola verso il mare aperto. Sulla bitta del Molo Audace, proprio come una grande bussola, sta la Rosa dei Venti.

A Trieste mi piacerebbe salutare Fabrizio, così gli scrivo e l’indomani ci incontriamo in piazza Unità con grande naturalezza, come fossero trascorse poche settimane dal viaggio lungo la Parenzana di sei anni fa. Fabrizio è un cicloviaggiatore di rara sensibilità, una guida preparatissima che sa raccontare questi delicati territori di confine, socio fondatore di ViaggiareSlow, nonché autore, tra gli altri titoli, del libro che ho portato con me in questo viaggio, “Istria, storie oltre i confini”. Sono proprio felice di ritrovarlo! E poiché “la tazzina è la scusa più banale” – lo cito! – prendiamo due neri e un capo in b, se ricordo bene i nomi, al Caffé degli Specchi.

Adesso che mi ritrovo, a distanza di tempo, a concludere il resoconto di questo viaggio, ritrovo tutta la bellezza del nostro andare e i piedi mulinano su pedali immaginari, come le gambe di chi corre nel sonno.

Giulia Cocchellailblogaruotalibera.blogspot.com

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