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Da Verona a Trieste in sella con Giulia

Abbiamo conosciuto Giulia Cocchella in Istria qualche anno fa, quando, sfidando la fisica ciclistica con l’incoscienza della gioventù, sognava di affrontare in un duello la Parenzana e gli sterrati gibbosi dell’Istria a cavallo di una agilissima Brompton. Già questo ardore potrebbe disegnare il suo profilo di leggendaria eroina a pedali, ma per conoscere meglio le sue avventure in sella abbiamo imparato a seguire il suo Blog: aruotalibera.  Genovese con una laurea in Storia dell’Arte, Giulia legge e scrive di viaggi leggeri, adora le giornate di sole e cucinare per gli amici. Si muove in bicicletta sfidando salite e traffico urbano. Nell’estate 2021 parte per scoprire l’Aida insieme a Federico, ritornando a viaggiare sui pedali. A distanza di un anno, riportiamo qui il suo racconto sognando nuove vie e nuovi incontri. Olè!

 

La ciclovia dell’AIDA – Alta Italia Da Attraversare – parte dal Passo del Moncenisio e arriva a Trieste, attraversando Piemonte, Lombardia, Veneto e Friuli, per un totale di 930 km. Un bel progetto Fiab, che collega tra loro ciclabili, ciclovie e strade secondarie. Noi decidiamo di percorrere l’AIDA Est, da Verona a Trieste, seguendo le tappe proposte dalla bella guida di Ediciclo e partendo proprio dall’Arena: qui, l’altra Aida, quella di Giuseppe Verdi, è in cartellone ininterrottamente dal 1913.

Lunedì: giorno di arrivo in auto. Liberiamo le bici dal portapacchi e dedichiamo il pomeriggio a gironzolare per la città. Il primo incontro è con Salgari. Gioviale, eternamente bloccato nel gesto di raggiungere il cappello con la mano in segno di saluto, sembra contento di essere qui, nella sua città natale. Non gli parlo di nulla che possa disturbare il suo buonumore, messo così a dura prova quando era in vita. – Adesso – mi sussurra sotto il sole di mezzogiorno – resto qui fermo come si confà ai miei piedi di bronzo. Poi, quando scende la notte, vado in cerca di tigri tra le vie che dormono – . – Ci sono anche qui? – chiedo. – Tigri e pirati sono dappertutto – mi risponde serio. – Un viaggio fantastico! – mi augura poi, facendo l’occhiolino.

Nel Duomo, l’Assunta di Tiziano si mostra in tutte le sue remore da Controriforma. Se nell’Assunta dei Frari, Tiziano aveva messo l’aria e il volo, il rosso e la luce vera, coinvolgendo gli apostoli nell’ascensione celeste della Vergine, qui i dettami della riforma cattolica – anche se non ancora sanciti dal Concilio di Trento – imposero maggiore compostezza e ordine. Resta il clamore dei colori e la vitalità dei volti, che quasi ci sembra di aver già visto, di riconoscere.

Il balcone di Giulietta è vuoto: lei è scesa nel cortile e si fa fotografare, stancamente. – Non è certo casa mia… – ci spiega, tra un sorriso e l’altro. – Tutto un grandissimo equivoco, credetemi – replica, portando una mano sopra al cuore. Ha lo sguardo malinconico delle circostanze immutabili: i personaggi, sembra suggerire, vanno trattati con cura e lasciati nei loro libri, nei loro teatri. Senza fare tragedia se non possiamo toccarli.

Piazza delle Erbe è abbagliante di luce, riflessa dalla pietra chiara su cui camminiamo, dalle case che la circondano e dai teli bianchi che coprono i banchi del mercato. Madonna Verona, al centro della fontana, regge un cartiglio che riporta un antico motto. Gli scorci più belli ce li regala il Lungo Adige, con il Ponte Scaligero e le anse del fiume, che invitano lo sguardo a proseguire oltre le curve d’acqua e i pedali a girare ancora, ancora, le ruote a calcare la luce e le macchie d’ombra. La ciclabile cittadina ci riporta al b&b. Domani si pedala verso Vicenza.

Martedì: Verona – Montecchio, passando per doppia foratura

Da qualche parte ho letto che quasi a nessuno interessano i dettagli, tranne quando le cose non funzionano. Sarà che sono miope, sarà che lo sguardo si riposa naturalmente su porzioni più piccole di orizzonte, sui micro-panorami, ma a me piacciono i dettagli. Mi piacciono per quello che sono e per come cambiano la percezione dell’insieme. Prendete un girasole sulla strada che porta fuori Verona. Prendetene uno – ce ne sono tanti, ma sceglietene uno che sia il vostro. La presenza dei semi cambia la sua morbidezza allo sguardo. C’è un’ape posata in alto a destra. Viene voglia di tuffare naso, labbra, occhi in mezzo a tutto quel giallo. Poi il tuffo si svolge al contrario, tutto si arrotola all’indietro come in Zoom di Banyai: usciamo dal giallo, micro-telaio di ali di ape, seme, corolla, girasole tra i girasoli, campo giallo tra rettangoli verde scuro, pedemontana veneta occidentale, Nord Est, porzione più vasta di globo terracqueo, pianeta blu. Ma in quel blu c’è anche una piccolissima parte di giallo, un dettaglio.

Oltre ai girasoli, ci sono le acacie. E le loro spine: prima foratura. Cambiamo la camera d’aria sfruttando uno spicchio d’ombra, gonfiamo e proseguiamo. La strada si fa sterrata, ma perfettamente pedalabile, e porta accanto alla ruota di un mulino ad acqua. Poca strada più avanti, la gomma anteriore di Fede è di nuovo a terra. Altra spina che non abbiamo visto? Camera pizzicata nelle operazioni di cambio? La piccola porzione d’ombra che troviamo questa volta, è proiettata dalla casa di un contadino, che ci viene incontro e offre il suo aiuto, raccontandoci intanto diffusamente delle sue galline: varietà, abitudini, piumaggio, carattere… Il discorso vira anche inaspettato sull’architettura dei ponti e quando ci salutiamo – la moglie col fazzoletto in testa, sullo sfondo – ho la riprova che i viaggi in bici sono strani catalizzatori: di incontri piacevoli, di discorsi smandrappati.

Trascorso il quarto d’ora di guardia senza che la gomma dia segni di cedimento, ci rilassiamo. La strada è piacevolissima, fiancheggiata da campi di mais, corsi d’acqua e vigneti sterminati. Soave si preannuncia da lontano con la vista del Castello Scaligero e dell’imponente cinta muraria, scandita da ventiquattro torri, costruite a partire dal X secolo. Cercando il più vicino negozio di bici per comprare una camera d’aria di scorta, ci imbattiamo in una grande azienda vinicola: questa è la zona storica di produzione del Soave classico. Prima di ripartire, ci procuriamo una bottiglia super lusso Rocca Sveva, per la cena di stasera. Lungo la strada per Soave, la Pieve romanica di San Pietro in Colle riposa all’ombra di abeti e vigneti.

La nostra destinazione originaria, per la tappa odierna, sarebbe stata Vicenza, ma la doppia foratura e la necessaria calma del primo giorno ci fanno arrivare a Montecchio Maggiore, dove la tradizione ha voluto riconoscere nel Castello della Bellaguardia il maniero di Giulietta Capuleti, e nel Castello della Villa, quello di Romeo Montecchi. Dormiamo qui, trovando una sistemazione poco confortevole, che però verrà stemperata dalla bottiglia di Soave.

Mercoledì: Da Montecchio a Badoere. Eroi, nani ed ex ferrovie

La strada della tappa di oggi si snoda per molti chilometri in sede protetta. Così a Vicenza arriviamo guidati dalla ciclabile, svoltando a un certo punto proprio in Piazza dei Signori, maestosa, con la Basilica Palladiana in pieno sole. Si stanno svolgendo le riprese per uno spot, o forse la scena di un film, perciò la piazza è insolitamente sgombra, dialogo puro di architetture e luce. Ci sarebbero palazzi e monumenti sufficienti per trascorrere qui una settimana, ma è necessario scegliere. Ci dirigiamo al Teatro Olimpico, meravigliosa sintesi dell’opera di Andrea Palladio e di Vincenzo Scamozzi. Anno 1580: un teatro così non si era mai visto. Costruito seguendo la descrizione di Vitruvio, in forme classiche, con una ripidissima cavea in cui il pubblico trovava posto, è il primo teatro stabile coperto dell’epoca moderna. Mentre i teatri romani e greci erano all’aperto, qui il cielo si contempla dipinto, le nuvole immobili a occupare lo spazio del soffitto. Lo spettacolo più sorprendente lo riserva la scena. Dalle tre aperture che si aprono nel fronte architettonico, partono cinque strade (tre subito oltre l’arco centrale) che sembrano lunghissime grazie all’illusionismo prospettico, mentre lo spazio scenico è di pochi metri.

Una zona di restauro nel fondale azzurro, oltre l’arco principale, in alto, mi fa pensare allo strappo nel cielo di carta di Pirandello. Ma qui l’illusione non crolla, vacilla appena, e vorremmo soltanto essere personaggi per poter percorrere lo spazio non com’è, ma come appare: vedere quelle strade dove portano. Pedaliamo appena fuori città, arrampicandoci per una breve salita, fino a Villa Valmarana ai Nani.

Il nome deriva dalle statue di diciassette nani, collocati lungo il muro di cinta del giardino all’italiana che circonda la villa. Sono lì sopra dalla fine del ‘700, perché la nuora di Giustino Valmarana evidentemente non li voleva nel giardino, dove si trovavano prima. Ci sono il nano guardiano, il nano venditore di elisir, la nana contadina, la filatrice, il viaggiatore, il soldato, la dama… E ovviamente c’è anche una leggenda, quella della principessa Layana, che nacque nana. I genitori, nell’intento di renderle la vita più felice, la rinchiusero in una villa isolata, dove la bambina potesse crescere inconsapevole del mondo esterno, dell’altezza media, di ciò che è conforme e deforme. I suoi servitori erano venti: tutti nani. Ma un giorno, lungo la stradina di San Bastian – come si chiama il colle su cui sorge Villa Valmarana – passò un giovane a cavallo, sfilando sotto lo sguardo incredulo della principessa. La consapevolezza tardiva e dolorosa, l’amarezza dell’inganno, così a lungo orchestrato, dovettero prendere la forma e il peso di una grande pietra in quel piccolo corpo. Layana si gettò dalla torre e i servitori nani, che non seppero proteggere la principessa come era stato loro richiesto, vennero pietrificati da una folata di vento gelido.

Quel Giustino Valmarana, la cui nuora fece spostare i nani, fu il committente del meraviglioso ciclo di affreschi a opera di Giambattista e Giandomenico Tiepolo. Da appassionato lettore di poemi qual era, chiese a Tiepolo padre di dipingere scene tratte dalle opere di Omero, Virgilio, Tasso e Ariosto. Nel Sacrificio di Ifigenia, la cerbiatta inviata da Artemide compare, condotta da Cupido, su una nuvola sospesa tra il colonnato dipinto e noi che guardiamo. Sembra appartenere alla realtà: il mondo degli dei ha fatto irruzione, vaporoso ma vero, nel nostro mondo. Da un’apertura sul soffitto si affacciano amorini e rondini. Didone guarda Enea con gli occhi dell’amore, mentre poco distante Ruggero cavalca un ippogrifo. Si vedono due piccoli pipistrelli in un rettangolo di cielo che cede il passo alla luce del giorno; creature fantastiche sorvolano gli architravi delle porte.

C’è un trucco che Tiepolo usa negli affreschi, per farci credere che sia sempre mattino. Lo ha imparato da Veronese, che già lo utilizzava due secoli prima. Si tratta di scegliere, tra i colori, le coppie dei complementari – giallo e violetto, rosso e verde, azzurro e arancio – per ottenere il risultato più luminoso. L’atmosfera è tersa e brillante, ci fa quasi socchiudere gli occhi.
Nella Foresteria – dove interviene anche il figlio Giandomenico – i soggetti sono più moderni: scene di vita quotidiana della campagna veneta o di paesi esotici. Ancora finzioni nella finzione, quadrature architettoniche e scaloni che promettono spazi rialzati, adiacenti, altri da quelli reali. Ci sono poi dei personaggi – me li fa notare Fede, inventa anche un nome e una storia per loro – che sembrano in procinto di scomparire. Sono gli Effimeri. Qui sotto radunati in un corteo che forse, a distanza di qualche ora, non sarà più possibile vedere.

Ci rimettiamo in sella. La pista ciclabile passa accanto a “La Rotonda”, altro capolavoro di Palladio, che è bello scoprire nel suo contesto naturale, fuori dai confini puliti delle fotografie dei libri.

Così è più facile capire la scelta delle quattro facciate, una per ogni lato. Dai quattro loggiati, racconta lo stesso Palladio, si poteva godere del panorama, ovunque si volgesse lo sguardo.
La pista continua a seguire il corso del Bacchiglione, diventando sterrata, finché incontra l’ex ferrovia Treviso-Ostiglia, convertita in ciclabile. Continuando per lo sterrato arriveremmo a Padova, invece scegliendo la variante “ferroviaria” andiamo dritti in direzione Treviso.
Costruita tra il 1920 e il 1940 per fini militari, fu presto danneggiata dai bombardamenti e progressivamente dismessa; a partire dagli anni Duemila, è stata recuperata come percorso ciclopedonale. Incontriamo gli edifici dei vecchi caselli, sole a picco, poi ombra.
Quando la stanchezza inizia a farsi sentire (oggi chiuderemo la tappa a 84 chilometri), facciamo sosta presso il Punto Ristoro Ostiglia che si trova proprio al centro del Veneto. Ce lo racconta il suo simpatico gestore, che mette anche un timbrino del viaggiatore sul mio taccuino e ci parla di una certa Simona di Badoere, dove dobbiamo assolutamente prendere il caffé.
La cercheremo, Simona, l’indomani mattina: bar a sinistra della Rotonda di Badoere.
Ma nessuna ragazza corrisponde alla descrizione.
Fine prima parte (segue)

 

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