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Krkavce, Istria, terra

Puntare il dito su di una carta topografica mentre si sorseggia il caffè alla partenza, fa parte di quei riti propiziatori che accompagnano ogni viaggio lento, corto o lungo che sia.

Per raggiungere la nostra mèta Krkavče-Carcase abbiamo solo due rotte: seguire la strada che sale dalla valle del fiume Dragogna – un’erta maligna da aggredire in bicicletta – oppure la via da nord che dal Monte di Capodistria sale a pendenze variabili lungo le alture di un itinerario a fondo cieco.

Pomjan-Paugnano, Kostabona-Costabona, Puce-Puzzole, Padna-Pàdena, Nova Vas-Villanova e Sv.Peter-S.Pietro, sono le frazioni collocate tra la Val Derniga e la conca del Dragogna, dal mare ai monti Savrini.

Sono rotte minori. Di turistico qui c’è poco, anche le Gostilne scarseggiano, stiamo in equilibrio su di un balcone che guarda l’Istria slovena interna e l’altro versante croato della valle, in mezzo un nuovo confine che ha lasciato monco un mondo di connessioni. Buie e Momiano sono lì a portata di sguardo ma quasi irraggiungibili se non compiendo larghi giri e attraversando nuovi valichi che tagliano terre storicamente indivise.

La strada sale, spiana e poi rilancia in un susseguirsi di gobbe corte o lunghe che la terra spinge dal basso. È un alternarsi di silenzi, odori di camini accesi, lontane seghe a motore e latrati di cani in una grigia e immobile giornata di fine gennaio.

La strada sale fino a inquadrare il paese che ci accoglie con il suo cimitero sulla sinistra. Qui la via si chiude, fine corsa in paese, oltre c’è solo lo strapiombo sul torrente Sottovilla (Feneda).

Krkavče ha poco più di 200 ospiti discontinui, chi tra seconde residenze, chi aggrappato tenacemente alle pietre squadrate di arenaria gialla.

Una schiera di case come avviluppate attorno ad un suo ombelico ai piedi della seicentesca chiesa di S.Michele Arcangelo. Tutto intorno boschi e campagne, terrazze di olivi esposte a meridione e ancora pietre di muri a secco, stalle, casupole dove un tempo convivevano uomini e animali.

Qui tutto racconta di fatica, lavoro tra la terra e le pietre, di bestie e bestemmie, di freddo e strade isolate, di mani e facce segnate.

Di gioie poche, il paradiso stava da altre parti.

L’aria è carica di un forte odore di colatura di olive, nel circondario ci sono alcune oljarne che evidentemente hanno atteso la macerazione del frutto e compiono ora lavorazioni indifferibili.

Il nostro obiettivo però è arrivare alla stele, la famosa pietra di Carcase, sulla quale è scolpita, da ambo i lati, la figura di un uomo con le braccia aperte e con un’aureola. Un monolite che nella tradizione locale viene chiamato anche “kamen troglav” o “pietra a tre teste”. Si racconta che la pietra, in un lontano passato, venisse utilizzata quale colonna dell’infamia, e ai piedi della quale venissero legate le persone in attesa di espiare pene o delitti e venisse venerata il giorno di San Vito e per Natale con cerimonie legate al fuoco.

Dalle ultime case dell’abitato impegniamo una strada sassosa inghiottiti da una boscaglia spoglia color cenere. La bicicletta scalcia come un mulo testardo per poi arrancare sull’ennesima salita aspra che ci scodella sull’ultimo poggio, prima della discesa che ci travasa nel vallone ampio del Dragogna. Qui una lingua di strada bianca segue il fondovalle e connette la piana di Sicciole alle radici dei monti Savrini.

Sembra che un gruppo di storni si diverta a seguirci oggi, migrano da un palo all’altro, popolano alberi spogli e fili elettrici come ragazzini dispettosi in piedi sull’altalena. Cercano cibo che non c’è: le distese di alberi di cachi che fino a dicembre vestivano la valle non ci sono più, bruciati dal vento e dal freddo delle correnti orientali.

È tempo di portare la prua in direzione nord ora, inizia a far buio e una fredda ed insolente pioggerellina ci avvolge nella discesa verso casa. È l’inverno accidenti, l’aria gelida e tagliente si insinua tra le pieghe del corpo per sottrarre le ultime risorse di energia.

Qui ci vorrebbe una sosta in una calda “cavada”* istriana, una sorta di buca o rozzo camino interno per accogliere il fuoco, dove l’intera famiglia si radunava nelle gelide giornate di mezzo inverno, tra uomini, donne e bambini, avvolti dal fumo, dai vapori di grappa e i profumi del pane.

Il giorno diventa notte e ora neanche gli storni si vedono più, si saranno infilati anche loro in qualche buca tra siepi e muri, cercando riparo a questa lunga stagione di silenzi e oblìo invernale.

Lahko noč vsem!

 

 

* Dal veneziano “cavada” cioè scavata

 

 

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